2016, “La Carica dei 104”, monologo scritto per Maria Beatrice Alonzi e poi donato all’attrice Alessandra Capparè.
Qualche giorno fa, passeggiando per Roma, tra una buca e l’altra – perché ormai camminare per strada è diventato uno sport olimpico – ho notato una scritta sul muro: “Non dare cento a chi ha bisogno della 104”.
Ma, risate a parte, quando usate la disabilità come offesa, sapete di cosa parlate? No, non è un pippotto morale su cosa si dovrebbe o non si dovrebbe dire in merito, non è manco vero che siamo tutti uguali. Dillo a uno che ha perso la sensibilità dal bacino in giù, vedi che ti risponde! Il punto è: voi ci siete mai stati con qualcuno che la 104 la prende davvero? Insieme, dico. Avete mai frequentato una persona con disabilità?
Se l’aveste fatto, in qualità di fidanzata, amante e/o partner sessuale, sapreste che la 104 è un punto d’arrivo. Non qualcosa da schivare. Per capirlo basterebbe dare un’occhiata a quanti falsificano i certificati d’invalidità: 100mila l’anno, questo dicono le statistiche. Non uno o due, centomila. Tutti stronzi? Sì, certamente. Ma perché lo fanno? Perché hanno capito – prima degli altri – le potenzialità di una vita differente. Certo, diciamola tutta, se ci tieni tanto ad avere sotto banco la 104, poi devi poter provare anche l’handicap. Tetraparesi, paraplegia, tetraplegia, cose così, insomma.
Tutto ha un prezzo, belli. Pure i privilegi. Vuoi il parcheggio gratis e vicino? Ti rompi una gamba. Vuoi entrare gratis al cinema? Diventi sordo. Dai, ditelo: “Un sordo al cinema che ci va a fare, a guardare le immagini?”. Siete ignoranti, cazzo, ci credo che poi scrivete stronzate sui muri. I film, da poco, nel nostro Paese, vengono trasmessi anche in LIS. Ad esempio, tirando lo sciacquone sulla tazza del cesso – in maniera totalmente inconsapevole – sono riuscita a tradurre in Lingua Italiana dei Segni “Cinquanta Sfumature di Grigio”: una cagata pazzesca! Vedete, basta poco e chi vuol capire capisce. D’altronde chi vuol intendere intenda, tutti gli altri in camper.
Avere una persona con disabilità accanto vuol dire sicurezza, considerazione e serenità: io ci sono stata, veramente, eh. Non come quelle che dicono dicono e poi non fanno niente, io l’ho fatto, porca miseria se l’ho fatto. Anche più di una volta, ovunque. E posso dirvi che è una svolta: primo, con le amiche. Normalmente mi rompevano le palle perché chiunque gli facessi conoscere era o troppo alto o troppo basso: le persone con disabilità motoria, invece, stando quasi sempre sedute in carrozzina, sembrano tutte alte uguali. C’è anche chi viaggia col bastone, ma gli sbruffoni tipo Dottor House non mi son mai andati a genio. Fanno finta di esser zoppi solo per potersi prendere l’efedrina: non sei storpio, sei un tossico!
Poi, una volta presentato, nessuna si azzarderà a dire qualcosa. Almeno non subito. Pure se è stronzo, volgare e troglodita (il mio non lo era, ve lo giuro, è ancora imbalsamato. Vicino al frigo), visto che ha una disabilità, meglio stare zitte. Lo pensano tutte. Ma nessuna lo dice direttamente. Per non parlare della rilevanza sociale che si acquista portandolo alle feste, agli eventi: è come esser protagonisti in una puntata di National Geographic.
Sabato sera: in questa sala immensa, dove ognuno balla e chiacchiera, improvvisamente si voltano tutti e mi vedono arrivare con quel bel vestito rosso, uno stacco di coscia che nemmeno le galline di Francesco Amadori, la scollatura sotto i livelli di guardia e al mio fianco – fianco, vabbè, inguine, una volta tanto ero io quella più alta – lui: giacca blu, carrozzina rigida (e mica solo quella), scarpa
sulla pedana antiribaltamento e via! Sembrava il set di Quasi Amici col budget limitato. Improvvisamente la musica si abbassa e tutti si avvicinano:
“Ma chi è tuo fratello, tuo cugino, tuo nipote?”
“No, veramente è il mio ragazzo, stiamo insieme da poco”
“Ah perché si può? Cioè funziona, non è arredamento, voglio dire… comunque che carini che siete” “Sì, come le piante!”
In men che non si dica diventiamo oggetto della giustizia sociale e civile, per aver scelto una persona diversa dal solito. Senza capire che il problema, eventualmente, ce l’hanno quelle con accanto uno stronzo. Che è una disabilità pure quella, ma ci sono meno rimedi. Nemmeno le staminali salvano quelli così.
Dopo aver sondato il terreno, avendo capito che ero accompagnata – e per giunta felicemente – (un’altra cosa bella dell’avere accanto un disabile è che, se dicono che sei la sua accompagnatrice, non pensano alle mignotte) passano a lui, ignaro di tutto, e procedono con le domande:
“Insomma è la tua ragazza?”
“Eh sì, da poco”
“Ma una cosa così, cioè tanto per, oppure…”
“Sì, guarda, invece di fare l’8×1000, quest’anno ha deciso di mettersi con me” “Vabbè, oh, ma che modo è di rispondere?”
“Se fate domande del cazzo, riceverete risposte adeguate…”
Che poi c’è sempre la convinzione per cui una donna normodotata – in grado di camminare, per quelli che hanno studiato al Cepu – che sta insieme a un uomo con disabilità deve averlo conosciuto per forza in clinica o durante la fisioterapia. Come se determinate persone frequentassero soltanto certi luoghi. Il mio l’ho conosciuto al corso da somelier: eh oh, per quanto indipendente possa essere, una persona con disabilità ama bere per dimenticare. Cosa? Fondamentalmente aver speso più di 600 euro soltanto per sapere cosa cazzo stesse bevendo.
È stato amore a prima vista: per 880 euro di pensione mensile non poteva esser solo sesso! A proposito di sesso, anche lì ci sono dei vantaggi. Pensateci: se un uomo non può usare due gambe, ne avrà una terza che non vediamo. E con lui era così: sembrava di farlo costantemente in macchina, tant’è che c’era pure il cambio, con l’unica differenza che una volta finito ero in grado di parcheggiarlo!
Vi rendete conto? Per la prima volta, dopo aver fatto l’amore, un uomo non scappa – e ci credo, dove cazzo vuoi che vada, gli ho messo i freni alle ruote – ma resta accanto a me. Per non parlare dello shopping: chiunque inventerebbe scuse per non voler passare la giornata al centro commerciale, lui non poteva farlo. Guidavo io. La carrozzina e la macchina. Ok, forse è per questo che poco tempo dopo ci siamo lasciati, più che una storia d’amore sembrava un sequestro di persona, come se non bastasse gli ho fatto comprare montagne di roba inutile. Avendo l’iva al 4%, pagava tutto meno della metà. Una greencard vivente. Ma è stato bello finché è durato, fin quando l’assistente sociale non l’ha portato via con tanto di ordine restrittivo nei miei confronti. L’ultima dedica che mi ha fatto, inguaribile romantico! Ora non è altro che un capitolo chiuso della mia vita a cui ripenso con disinvoltura.
Magari non riusciva ad aprirmi la portiera della macchina, ma mi ha fatto aprire gli occhi sui troppi pregiudizi e tabù che girano in questo Paese. E a noi non resta che abbatterli con un sorriso.
Andrea Desideri