Camilleri si racconta: “Gli intellettuali non devono essere al servizio del potere, ma della verità”

Andrea Desideri
Andrea Desideri

Occhiali fotocromatici, sorriso appena accennato e quell’aria rassicurante e trasognata di chi sa d’aver compiuto l’ennesima impresa artistica e professionale. Questo è Andrea Camilleri, autore e personalità di spicco della cultura nostrana, che all’età di 93 anni ha ancora l’entusiasmo dei giorni migliori. Merito della fervente intelligenza e curiosità. Facile a dirsi, ma il padre di Montalbano dimostra che è possibile: rimanere attivi si può – e si deve – specialmente col passare del tempo. Lui lo fa componendo, creando storie, rielaborando vicende più o meno note. Si è definito un impiegato al servizio della scrittura, senza mai mancare un appuntamento. Restando in tema di date da segnare, è uscita recentemente al cinema la sua rappresentazione teatrale “Chiamatemi Tiresia”, in cui il Maestro – come lo chiama chiunque, con merito – veste i panni del celebre indovino greco servendosi esclusivamente della parola. Così, l’abbiamo contattato al termine di queste date cinematografiche che l’hanno visto protagonista per parlare dei suoi prossimi impegni, ma anche e soprattutto per capire in che modo Camilleri affronta la vita recentemente. Visto che, per sua stessa ammissione, da quando ha perso la vista, vede le cose assai più chiaramente. Allora parlare di arte, cultura, politica e società diventa doveroso.

Lei, con questa rappresentazione teatrale e la scelta che ha fatto di mettersi su un palco per raccontare la storia di Tiresia (letteraria e mitologica), ritiene che attualmente sia più utile comprendere certe dinamiche storico-sociali anche attraverso l’arte?

Devo dirle la verità, neanche per un istante ho pensato all’utilità di questa mia rappresentazione, piuttosto al privilegio di poter lavorare sullo stesso palcoscenico di Eschilo. Ad ogni modo sì, sono certo che la trasmissione della storia passi soprattutto attraverso l’arte. L’artista vero coincide spesso anche con la profezia.

“Conversazione su Tiresia” l’ha impegnata sia fisicamente che mentalmente, è più difficile studiare leggendo o facendosi raccontare i diversi testi di riferimento (come è stato costretto a fare vista la sua attuale condizione)?

Sì, chiaramente è stato molto più difficile. Io ho sempre studiato attraverso un mio modo di ricerca e quindi migravo fisicamente da un testo ad un altro. Magari la semplice visualizzazione di una parola mi accendeva la scintilla per la ricerca di una nuova. Ora ho dovuto affidarmi ad altri, ma devo dire che mi sono fidato bene.

Una frase che ricorre spesso, durante la rappresentazione, è: “Ora che sono cieco, vedo le cose assai più chiaramente”. Un cambiamento del genere le avrà ispirato più di qualche riflessione, c’è qualcosa per cui ancora si stupisce o emoziona – al pari di Tiresia – oppure, con la sua esperienza e professionalità, sente di aver provato tutto?

Certamente che mi stupisco e mi emoziono. Mi indigno e mi commuovo. Mi arrabbio e mi tranquillizzo. La cecità mi ha permesso di sentire magari in modo più profondo alcune emozioni, non certo di perderle.

L’esigenza di ripescare i racconti storici e riportarli sia in forma orale che in forma scritta, come ha fatto con una serie di romanzi che poi sono arrivati anche in televisione, nasce dal profondo senso di smarrimento che nota nella società odierna oppure è semplicemente una passione che ha coltivato nel tempo?

Il romanzo storico, che pratico da sempre, mi è sempre parsa la struttura più congeniale per raccontare il presente. Nel suo profondo senso di smarrimento ma anche, talvolta, nella possibilità di cambiare la storia proprio perché non si ripeta.  La scelta di portarli in televisione, prima ‘La mossa del cavallo’ e ora ‘La stagione della caccia’, non è mia ma del produttore Carlo degli Esposti, una scelta coraggiosa di cui sono davvero orgoglioso.

Lei, grazie alle vicende di cronaca nera e ai romanzi gialli, è arrivato al pubblico in maniera netta e incontrovertibile: Montalbano, ormai, è un cult letterario; in tivù ha lo stesso successo di una partita della Nazionale. Cosa pensa della piega che sta prendendo il genere, ravvisa – potenzialmente – un suo erede?

Io scrivo scrivo romanzi gialli, come nel caso di Montalbano, che hanno avuto una fortuna inaspettata. Purtroppo non leggo più e non so chi possa essere il mio erede. Certo ho un rapporto di grande stima e affetto per Antonio Manzini che spero possa avere un futuro letterario degno del suo talento. 

Lei ha confessato alla stampa di essere “un impiegato al servizio della scrittura, senza essersi mai preso un giorno di licenza”: c’è qualcosa a cui sta lavorando, dopo il successo di Siracusa, quindi…

Ecco, proprio dopo il successo di Siracusa, ho avuto bisogno per la prima volta nella mia vita di riposarmi e non ho scritto un rigo per un mese e mezzo. Evidentemente la fatica di studiare, imparare a memoria e recitare era stata troppa. Ora sono tornato a lavorare, felicemente. Sto lavorando ad un nuovo Montalbano e forse ad un nuovo progetto teatrale.

Lei si è schierato più volte difendendo degli ideali, anche pubblicamente, contro questo clima che si sta delineando a livello politico e sociale. È soddisfatto di come esponenti dell’arte e della cultura stiano affrontando la situazione oppure ritiene che bisognerebbe fare di più in tal senso? Gli intellettuali sono a servizio del potere esattamente come un tempo oppure no?

Gli intellettuali non devono essere a servizio del potere, ma a servizio della verità. Io non sono mai stato legato alla politica, nonostante sia un comunista convinto e a modo mio militante. Ecco, laddove mi è possibile, io cerco di esprimere sempre le mie idee, libere. D’altronde mi dispiace constatare che in un momento di grande libertà, perlomeno di comunicazione e di espressione attraverso il web, cittadini abbiano votato chi erige muri piuttosto che il contrario.  gli intellettuali sono cittadini come gli altri, e devono essere liberi di esprimere le loro idee.

Andrea Desideri
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