Dietro la maschera: Diabolik e l’autarchia condivisa dei Manetti Bros

Andrea Desideri
Andrea Desideri

I Manetti Bros, all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, parlano (anche) di Diabolik ma soprattutto del loro percorso lavorativo.

I registi e il legame con Diabolik (Getty Images)

Al posto dei giocattoli le cassette. Inizia così la favola dei Manetti Bros che, da piccoli, non giocavano quanto e come tutti, ma guardavano film. Una passione che va avanti sin dalla tenera età, quella per il cinema, mai solo lavoro ma un obiettivo conquistato con fatica. Motivo per cui – dicono loro – hanno ancora la vetrinetta con tutte le cassette conservate. Nell’epoca dello streaming, quella che per altri è nostalgia per loro è benzina: carburante che gli ricorda da dove sono partiti – da una cameretta, come Bezos – per arrivare di nuovo alla Festa del Cinema di Roma, ma come protagonisti. Quelli da guardare, non più in cassetta ma dal vivo quando è possibile, ormai sono loro.

I Fratelli più innovativi del cinema italiano contemporaneo tornano nella Capitale per un incontro con i fan, ma soprattutto per quel Diabolik che, a causa del Covid, è nel congelatore da un po’ e a Dicembre – finalmente, sottolineano – vedrà l’uscita: una luce necessaria, per loro, che tornano a confrontarsi con un pubblico vero in grado di restituire pareri ed emozioni. Quelle che hanno avuto loro e continuano ad avere guardando Hitchcock, uno dei maestri di riferimento che seguono come il “salvatore”. 

Manetti Bros, la produzione familiare come alternativa alla logica degli incassi

L’incontro con i fan alla Festa del Cinema (Getty Images)

“Quando non sappiamo come girare una scena – ricordano – facciamo sempre riferimento a lui. Ha tutte le risposte, anche l’intervista con Truffaut è un saggio straordinario. Resta una guida per quelli come noi”. Quelli come loro che hanno scelto la libertà per arrivare al successo, il cinema horror, infatti, è solo una parte della formazione Manettiana che ha sempre prediletto il teatro dell’assurdo plasmato al grande schermo. Per farlo, secondo la filosofia di famiglia che si portano dietro, serve: “Un pizzico d’incoscienza e la volontà di andare oltre”. 

Ragion per cui non concepiscono imposizioni di alcun genere. Lavorano da soli, nel senso che producono ogni progetto che girano (con l’ausilio di personalità importanti che, però, non mettono bocca sulle loro idee): “Sappiamo lavorare solo così, perché abbiamo imparato che il budget in un film non è tutto. Vogliamo avere libertà di movimento, quella che spesso ci è mancata in alcuni progetti quando ci siamo affidati ad altri”. 

Roma, talismano e punto di ritrovo: il legame dei Manetti con la Città Eterna

Quello che i Manetti veicolano è una sorta di autarchia condivisa – dentro e fuori dal set – che mette loro su un piedistallo da cui, però, scendono subito perché vogliono metterci la faccia ma anche il cuore in quello che fanno: “Non siamo per niente sboroni, anzi, noi vogliamo lavorare alle nostre condizioni proprio per coinvolgere la troupe in maniera diversa. Non siamo mai stati schiavi della macchina da presa. È l’attore che plasma l’inquadratura, non viceversa”.

Le idee chiare non mancano e, in un’ora e mezza di chiacchierata si capisce perché hanno rivoluzionato i canoni attuali del cinema: tanto studio, applicazione, ma anche una buona dose di inventiva. Fare cose che sembrano impensabili è possibile solo quando cominci a portare sul set e in produzione un po’ di quella sana follia che rende intramontabile ogni cosa. Dietro il David di Donatello del 2018 con “Ammore e Malavita” c’è tutto questo. Lo stesso, probabilmente, si ritroverà sotto la maschera di Diabolik. Dopo aver sbancato nel 2013 con “Song ‘e Napul’è”, Roma applaude ancora i suoi figli d’arte. Fratelli su cui, come insegna la storia, si costruiscono le fondamenta di nuovi orizzonti.

Andrea Desideri
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