Kalashtag: armi e risorse del social-terrorismo

Andrea Desideri
Andrea Desideri

Parigi, Manchester, Londra, Barcellona. Città, paesi, luoghi divenuti simbolo del terrore e centro nevralgico del terrorismo che, da qualche tempo, scandisce sempre più prepotentemente le vite umane che si ritrovano unite da una paradossale strategia della tensione. Questa unione è sinonimo di forza e attaccamento, ma anche e soprattutto conseguenza del mondo globalizzato. Possiamo raggiunge chiunque con un click per merito dei nuovi media, i confini geografici vengono abbattuti mediante una tastiera. Dopo i nuovi media, sono arrivati i social media: piattaforme sociali con il solo scopo di condividere esperienze, stati d’animo ed emozioni in Rete. Anche notizie, situazioni e rivoluzioni. Non a caso, in breve tempo, siamo diventati tutti francesi, poi tutti inglesi e, ultimamente, tutti spagnoli. La propaganda e la propagazione del terrore ha girato velocemente fra gli snodi del World Wide Web, attraverso i social network. Infatti, terrorismo, oggi, significa anche diffusione mediatica e mastica un linguaggio crossmediale. Dopo ogni attentato, è stato richiesto da più parti (anche a livello istituzionale) di non cliccare sui video delle stragi ed evitare di condividere immagini degli scontri per evitare di dare punti di riferimento ai terroristi che, ormai, fanno dell’hashtag il nuovo Kalashnikov: un’arma, la nuova risorsa, di distruzione di massa. 

Dietro il potere coercitivo del terrore, si celano prevalentemente giovani di buona cultura, che padroneggiano una o più lingue e sono permeabili agli stimoli che arrivano dal mondo, conoscendo bene le grammatiche dei network digitali. La loro forza non sta nell’organizzazione, ma nella quantità di risorse a cui possono attingere: “La guerra di immagini e parole ha raggiunto una portata senza precedenti. L’ascesa dell’Isis ha esacerbato questa dinamica, perché questo gruppo terroristico ha sviluppato capacità e tecniche di propaganda molto sofisticate (ben più di Al-Qaeda). Da una parte sono in grado di produrre e diffondere i loro contenuti bypassando i media tradizionali, ma dall’altro usano gli stessi media per sfruttare al massimo l’impatto psicologico dei loro attacchi: diffondere insicurezza, paura nelle popolazioni ma anche affascinare e sedurre nuovi sostenitori. Isis si è specializzato nelle tecniche di comunicazione e nell’uso dei social e soprattutto propone una narrazione allettante di eroismo e virilità, spesso contando proprio sulla copertura dei media tradizionali” (Charlie Beckett, Fanning the flames: reporting terror in a networked world).

Daesh (acronimo arabo di Isis) ha costruito una trappola mediatica e ogni media occidentale c’è cascato, loro hanno la consapevolezza di quali paure e immagini i media occidentali sono affamati, così gliele danno affinché vengano diffuse. I gruppi terroristici studiano i nostri mezzi di comunicazione di massa, pubblicando e aggiornando analisi di ogni copertura, arrivando a controllare persino cosa i ricercatori accademici dicono. I terroristi contano sul fatto che i media, soprattutto la tv, in nome dell’audience tendono alla spettacolarizzazione, al sensazionalismo, coprendo in modo quasi ossessivo la violenza. Tutto questo si è enormemente amplificato con il Web, con la possibilità dei terroristi di disintermediare, cioè di produrre e diffondere autonomamente contenuti, e messaggi, provando e spesso riuscendoci a dettare l’agenda mediatica. Da molto tempo gli jihadisti si ingegnano per la propria propaganda: appena tre anni fa, un sostenitore iracheno dell’Isis ha creato un social network specifico adibito al reclutamento di persone favorevoli alla guerra santa. Khefalbook, così era denominato, usava il pretesto della simpatia verso lo Stato Islamico e il suo credo per poi diffondere programmi e strategie di guerriglia. Una volta scoperto, è stato prontamente bloccato dalle autorità competenti, con l’ulteriore consapevolezza del fatto che islamismo e jihadismo sono due cose radicalmente diverse. Tuttavia, hanno delle analogie e sono proprio quelle su cui fanno leva determinati soggetti nel momento in cui sono alla ricerca di nuove leve: “Per combattere la propaganda online non bisogna prendere di mira soltanto i contenuti, ma anche quelli che la diffondono, e non c’è un algoritmo per individuare chi chiamerà al jihad online. Facebook, così come Twitter, non ha alcuno strumento che le permetta di distinguere con certezza le persone che chiamano al jihad da quelle che si mostrano semplicemente a favore dell’autoproclamato Stato islamico. E Facebook si ritrova in una situazione complessa e paradossale: il motivo del suo successo – ossia creare e mantenere delle comunità di interesse – è anche ciò che ne fa lo strumento migliore della propaganda jihadista. Il social network è intrappolato nel proprio algoritmo. A meno di non esercitare una censura troppo pesante, poco costruttiva e ingiusta, i suoi margini di manovra sono scarsi. L’Unione Europea è ben consapevole del problema, poiché ha chiesto ai colossi americani della rete di adottare misure efficaci per combattere la propaganda dell’Isis su internet. Ma Facebook cosa può fare? Se modificasse l’algoritmo, perderebbe la propria essenza” (Rue89, “Come sono diventato un jihadista su Facebook”).

Centinaia di “foreign fighters” hanno contribuito alla causa jihadista proprio perché mossi da un’emulazione incomprensibile, che dipingeva terroristi al pari di “eroi neri” in grado di imporsi attraverso la popolarità mediale veicolata dai vari utenti, attraverso video, immagini e comunicati. Quello che per noi è sgomento, per loro è cibo, quella che per noi è debolezza, per loro è forza. Quindi, prima di diffondere determinati contenuti, pensateci due volte: non sempre diffondere gli effetti di una barbarie aiuta a bloccarla. La follia è come la gravità: basta solo una piccola spinta, e per alimentarla potrebbe servire il Wi-Fi. 

Andrea Desideri
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