Sora Lella: celebrità e buon gusto all’Isola Tiberina

Andrea Desideri
Andrea Desideri

L’Isola Tiberina è l’unica isola urbana del Tevere, collegata alle due rive dal Ponte Cestio e dal Ponte Fabricio. Questa realtà urbana, nel centro di Roma, è da sempre teatro di leggende, miti, imprese da ricordare. Si passa da Esculapio a Epidauro, divinità ricordata perché salvò Roma da una pestilenza abbattutasi nel 292 a.c., ai martiri romani Esuperanzio e Marcello, di cui furono trovate le ossa all’interno del pozzo che albergava nel campanile, da allora l’acqua del pozzo è considerata miracolosa. Qui i miracoli li fanno le persone: alcune sono divine, altre martiri, ma comunque persone. L’aria che si respira camminando è sempre la stessa, anche col passare degli anni. L’odore della semplicità che ha reso grande Roma in tempi non sospetti e la mantiene mastodontica e unica ancora oggi, tempi in cui qualcuno prova ad infangarla con gesti poco urbani e che mal si addicono al costume e alla morale di chi queste strade le vive e le ha vissute da sempre. Il sorriso dei passanti fa da cornice a degli scorci cinematografici, Sorrentino insegna. Il cinema e l’Isola hanno un rapporto molto stretto, basti pensare a L’Isola del Cinema; la manifestazione è giunta alla sua ventunesima edizione portando nella città eterna il prestigio del cinema italiano e internazionale. Insomma, qui tutto sembra indurre a qualcosa di unico e irripetibile, può nascere qualcosa di incomparabile da un momento all’altro. Persino andare a pranzo fuori può diventare un’esperienza da raccontare, un atto tanto semplice quanto profondo. 

All’Isola Tiberina c’è addirittura il posto dove cinema, romanità e tradizione si uniscono. Due parole: Sora Lella, al secolo Elena Fabrizi. Quest’anno ricorre il centenario della nascita di questa gran donna che, sicuramente, è rimasta nel cuore di molti romani (e non solo) per la sua verve cinematografica, ma rappresenta senza alcun dubbio la testimonianza di una cucina e un modo di approcciarsi al cibo che non c’è più. Lella, come veniva chiamata amichevolmente, prima di dedicarsi al cinema svolse l’attività di ristoratrice nella Capitale. Infatti, il ristorante che porta il suo nome – Sora Lella – è un’icona della cucina romana, ora gestito dal figlio Aldo Trabalza che con la collaborazione dei suoi figli ha portato lo stampo romano in tutto il mondo. L’arte culinaria della lupa trova la sua forza e longevità nelle ricette, sempre le stesse, fatte nel medesimo modo. Lo conferma proprio Aldo che, circondato da cornici raffiguranti la mamma con i più grandi attori del cinema italiano (da Verdone a Gassman), ammette: “La cucina romana non si evolve ma rimane quella sempre, rispettando i canoni precisi delle ricette. La Amatriciana, ad esempio, la continuiamo a fare come la faceva mia madre cinquant’anni fa: guanciale, vino, pomodoro, peperoncino e pecorino. Ovviamente, con il tempo, abbiamo tolto sia l’aglio che la cipolla, ma la base resta la stessa. Idem per gli involtini: sellero (sedano) e carote, diceva mamma. Li facciamo ancora così”. Continuando a parlare di cucina, Aldo sottolinea come le nuove generazioni non concepiscano appieno certi piatti: “Mia madre diceva: il mondo va male, è colpa dei mondaroli. Sono i clienti che sono cambiati, snobbano certe portate perché non le conoscono proprio; per esempio, le spuntature di maiale co’ i gobbi (che sarebbero i cardi) se io le metto sul menù non le prende nessuno. Anche i fagioli con le cotiche vengono snobbati perché non conosciuti troppo, si pensa che siano grassi ma non è così perché le cotiche se vengono pulite bene e rimane soltanto la pelle sono digeribilissime e non grasse. Ci sono dei piatti dimenticati perché la generazione è cambiata e non mangia più queste cose, adesso con tutte le informazioni che ci sono sull’obesità, bisogna stare attenti a mangiare. Ci bombardano di informazioni, anche giuste, e condizionano la vita. Oggi si preferisce un primo e un contorno, si beve meno vino. Mentre cinquant’anni fa si faceva il pranzo completo per davvero”. La famiglia Trabalza ha espanso il proprio modo di fare ristorazione anche all’estero: “Fortunatamente, dopo tanti anni, siamo conosciuti in tutto il mondo. Non dico una stupidaggine, vengono tutti stranieri. Da Copenaghen, da Marsiglia e così via. Tutti ci vengono a trovare per assaggiare i nostri piatti, è un nostro punto di forza. Quando vengono, noi proponiamo la stessa offerta che prospettiamo ai romani. Come si dice: o te magni ‘sta minestra o te butti dalla finestra (ride),  magari non mangeranno i rigatoni co’ la pajata o la trippa ma un bel ragù di carne lo rifiutano difficilmente”

Saper cucinare è un’arte, la riuscita o il fallimento nella realizzazione di un piatto lo dimostra. Avere a che fare con il cibo significa, in qualche maniera, plasmare i sentimenti e le emozioni del cliente. Quando si mangia bene il sorriso e la soddisfazione escono spontaneamente, se invece si mangia male resta, appunto, l’amaro in bocca. Da “Sora Lella” ne sono consapevoli, tant’è che cercano di deliziare il palato sopraffino ed esigente dei paganti a colpi di pancetta e sughi prelibati. Arte chiama arte e così si arriva anche a capire come, persino nell’antro di una cucina, le parole hanno un ruolo importante e portano con sé significati ben precisi: “Se al cliente viene spiegato ciò che mangia, è più consapevole. Il nome di ogni alimento non è casuale: per esempio, in tutta Italia il figlio della pecora viene chiamato agnello, noi a Roma lo chiamiamo abbacchio perché, quando l’agnellino nasce e viene svezzato, il pastore poi lo porta a passeggiare con il gregge perché il muscolo che esercita forza restituisce un sapore migliore. Influisce molto anche il pascolo, nel sapore della carne, a seconda dei terreni e delle varie zone. Si costringe l’agnello a brucare l’erba migliore, legandolo ad un bastone piantato nella zona di prato più sana. Abbacchio deriva dal latino ad baculum, che vuol dire “al bastone”, proprio per ricordare le condizioni in cui era costretto a pascolare l’animale”.  

Questa voglia di comunicare, di ricercare l’etimologia della parola per fornire un riscontro migliore a livello qualitativo si riflette anche nelle esperienze passate in casa Trabalza, infatti sia Aldo che Elena hanno collaborato a Radio Lazio dove intervenivano per dare consigli agli ascoltatori. Quando si è in onda, la ricerca delle parole giuste è fondamentale. Perciò la passione per la retorica si tramutò presto in passione per la poesia, tanti sono gli scritti e il materiale raccolto negli anni che racconta la vita vissuta dalla signora Fabrizi e famiglia. Aldo stesso ha scritto due libri: “Ricordanno mi’ zio”, una raccolta di poesie in ricordo di Aldo Fabrizi, e “Il mio amico albero di fico – storie di vita e… di cucina”, una sorta di autobiografia che racconta la sua storia familiare sino al duemilasei. Restando in tema di ricordi toccanti, Aldo parla di sua mamma: “Ho incominciato a scrivere grazie a mia madre, che per la prima volta fece leggere a dei collaboratori in radio una mia poesia. Da allora ho coltivato questa passione, specializzandomi nella tecnica dei sonetti. Ne scrissi uno per lei, mentre stava al ristorante e la vedevo seduta con la stufetta accanto. La cosa bella di mamma è che era vera, anche nei film, non recitava. Era così, era lei. Io rido perché ho vissuto le stesse situazioni che voi vedete nelle cassette, persino le stesse mosse. Alla fine, è stata una gran donna e una grande mamma”.

Portare avanti le tradizioni di famiglia è una cosa desueta, ormai. Siamo nel mondo globalizzato, dove domina il caos, la fretta, lo stress della routine. Tutto, però, sembra fermarsi quando si varca la porta della “Sora Lella”. Un mondo a parte, dove puoi trovare la cordialità e la cortesia di persone che capiscono l’importanza del progresso senza mai dimenticare da dove vengono. Non c’è solo la romanità, c’è il calore di una famiglia che si stringe attorno all’affetto di quella che è stata una madre, una nonna, un pezzo di storia di Roma mantenendo la semplicità di chi è consapevole che solo col duro lavoro si costruisce qualcosa di importante. La celebrità che questa famiglia, questo ristorante, ha guadagnato negli anni è il giusto riconoscimento a quegli ideali che sembrano scomparsi, invece sono nascosti dietro un buon piatto di pasta. 

Andrea Desideri
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