23 Maggio 1992, muore il magistrato Giovanni Falcone ad opera di Cosa Nostra, nella strage di Capaci in quel maledetto giorno di ventitre anni fa, rimangono uccisi anche Francesca Morvillo (moglie di Falcone) e i ragazzi della scorta. Ventitre anni dopo, nel duemilaquindici, questo numero – ventitre – risuona come un mantra infernale ricordando quel maledetto giorno in cui la mafia provò a debellare con le bombe ogni speranza di giustizia nel nostro Paese. Ventitre; ventitre Maggio, ventitre anni. Tanti, sicuramente qualcuno in meno del più giovane dei ragazzi che scortava Falcone, Vito Schifani, che quando è morto compiendo il proprio dovere, di anni, ne aveva ventisette. Era nato il ventitre febbraio del ’65. Eccolo, il ventitre, che torna ancora una volta. Ora, sta ad indicare la giovinezza rubata, trascinata via troppo presto da quella barbarie. Una giovinezza ricolma di responsabilità e senso del dovere, che l’hanno portato a difendere lo Stato (che in quel frangente vestiva i panni di un magistrato) anche a costo della vita. Senza esitazione.
Restando per un attimo su questa suggestione, immaginiamo un ragazzo di ventitre anni oggi, ipoteticamente coetaneo di Vito: ricorda come tutti una strage che ha colpito al cuore la legalità, cercando di farla vacillare. Cambiano i tempi, quindi cambia anche il modo; prima c’erano i libri, le foto sbiadite, ora ci sono i tablet, l’HD e i social network. Come cambia il ricordo? Una frase sul proprio profilo per essere a posto con la coscienza, pronti a non ignorare qualcosa di importante con la velocità di un click. Lo stesso click che manda avanti le organizzazioni criminali, prima di un telecomando, come quello che fece schiacciare Totò Riina sull’autostrada Palermo – Capaci, ora di un personal computer. E’ tutto più veloce, sia per chi la storia la vive, sia per chi la studia, e soprattutto per chi la fa. Il ricordo resta, ma si evolve. Nel bene e nel male. Ricordare il grande lavoro portato avanti da Falcone e Borsellino è certamente un obbligo, con ogni mezzo lecito: scrivetelo, postatelo, taggatelo, l’importante che non venga dimenticato. Italiani, ma prima ancora come persone che hanno permesso che ci venisse tolta la nebbia dagli occhi. Perché la mafia questo fa: confonde, disorienta, offusca. Nel ’90 parlare di organizzazioni criminali era un utopia, dire che lo Stato poteva in qualche modo essere colluso con i malavitosi, significava essere un visionario. Di pizzo, era conosciuto solo quello presente nella biancheria femminile. La mafia prima di Falcone e Borsellino era come una zanzara in pieno agosto: c’è, ne senti il rumore, ti infastidisce, ma non la vedi. Ti accorgi della sua presenza solo dalle tracce che lascia successivamente. Ecco, loro, con tenacia e caparbietà, ci hanno insegnato a vedere, facendone le spese, qualcosa che c’era e ci sarà.
Ognuno di noi possiede gli strumenti giusti per non chiudere gli occhi, infatti ora ci troviamo nella situazione opposta: la mafia viene stereotipata. Troppo spesso si pensa di avere a che fare con lupara e coppola, ignorando la metamorfosi che lo stampo mafioso ha compiuto in questi anni. Oggi, il crimine è sotto gli occhi di tutti, l’omicidio è diventato uno spettacolo mediatico su cui discorrere la sera davanti al tg. L’efferatezza ha conquistato la ribalta, non ci si stupisce più di nulla, perché la tecnologia ha permesso di varcare quel confine che un tempo era ritenuto off- limits. Conosciamo il giuramento che un camorrista fa quando entra a far parte de “a famigghia”, sappiamo regole, discorsi e atti che si fanno in procinto di un’ esecuzione. Cosa pensava tizio, come ha agito caio, la realtà che diventa fiction e viceversa. E’ proprio questa presa di coscienza, fin troppo palese, che ignora e nasconde meccanismi ben più oliati. Ci fanno vedere un ritratto di criminalità adatto alla situazione, perché non si vada a scomodare la polvere che si cela sotto la superficie. Oggi, come allora, basta un click; prima saltavano vite umane, ora saltano appalti, un tempo si rapinavano le banche, adesso si sfruttano. Interessi, troppi e variegati, che si discutono a tavolino e sfociano in mezzo alla strada solo in ultimissima istanza. La mafia 2.0 non ti uccide, ti fa fallire, non ti annienta, ma ti sfrutta. Ti usa fino a che sei utile, piazzandoti nei posti giusti. A ricoprire quel ruolo, quella carica, alla fine il sangue è buono solo nei film. Meglio vivo e governabile come una marionetta che morto ed inerme. Il doppio petto ha preso il posto del basco, il suono dello scacciapensieri è stato sostituito dal battere incessante delle tastiere di pc e, quelli che prima erano nascondigli segreti, ora sono uffici arredati di tutto punto che non destano il minimo sospetto.
La velocità è la nuova forma di ignoranza: accade tutto così in fretta che non se ne analizzano fino in fondo le cause. Più facile cercare un capro espiatorio. “Con gli immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”, avrebbe detto qualcuno e così via. Perché tra un tag e l’altro, un’immagine di Falcone, una frase di Borsellino, un post su Twitter, il mondo va avanti. L’illegalità si propaga, in altri pertugi, prendendo altre strade. Insinuandosi nella quotidianità. Oggi più che mai dobbiamo essere Capaci di riconoscerla. E’ un dovere verso chi ha speso una vita tentando di farlo.
© Andrea Desideri. Tutti i diritti riservati.
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