Venezia 80, Stefano Sollima dice “basta” alla Roma criminale con un Adagio
L’ultimo film del regista romano racconta l’altra faccia della medaglia sulla Roma criminale: Adagio è un cerchio che si chiude, quanto basta per indicare una (nuova) rotta.
Stefano Sollima è il primo – a livello cinematografico – che ha iniziato a parlare di Roma criminale. Colui che, intorno al 2008-2009, metteva fine al capolavoro seriale (così è stato definito da critica e pubblico) “Romanzo Criminale”. Prima di lui, sul piano letterario, l’aveva fatto Giancarlo De Cataldo con un libro che è – a tutti gli effetti – un manifesto perchè fa quello che determinati manoscritti fanno: mette ordine. De Cataldo, con Romanzo Criminale, ha rotto un argine.
Era il 2002 e, malgrado a livello letterario si parlasse di mafia, nessuno (o quasi) lo faceva accostando il termine a Roma. Una Città Eterna apparentemente senza macchia, eppure di tracce ne ha avute: ancor più ombre, quelle che De Cataldo ha messo in ordine romanzando fatti realmente accaduti. L’epopea della banda della Magliana – per chi non l’aveva vissuta – presentava tanto pressappochismo e una confusione di base che impediva ai posteri di capire determinate logiche che, nonostante tutto, si sono insinuate nella contemporaneità.
“Adagio” chiude il sipario sulla Roma criminale
De Cataldo gli ha dato una contestualizzazione e uno schema che Sollima ha seguito (prima ancora Michele Placido che, però, non ha approfondito la questione) e sviscerato nella sua più totale chiarezza, andando alla ricerca di quella che viene definita – per l’epoca – una “nuova oscurità”. Un inizio che ha dato vita ad altre sfumature ugualmente intense, tanto nel cinema quanto nella cronaca. Sollima ha avuto la possibilità – riduttivo chiamarla fortuna – di incedere al pari della stretta attualità: quello che raccontava nei film si verificava anche nella realtà e viceversa. È successo con Suburra, ACAB e Gomorra.

Una serie di progetti che hanno portato anche altri colleghi alla ribalta e all’esigenza di intraprendere quella stessa strada: il regista romano, con qualche capatina in America (impossibile non ricordare “Soldado”), ha dato vita a una vera e propria tendenza. Quella che rivendica un crime action crudo, senza sconti e talvolta profondo.
Un viatico che con Adagio si avvia verso un’inevitabile chiusura: Sollima scrive – a suo modo – la parola fine su una strada ormai ampiamente battuta. È il momento di dedicarsi ad altro, di andare oltre e trovare nuovi stimoli, ma prima serve una chiusura degna: quella calata di sipario che fa dire al pubblico pagante “grazie per aver aperto gli occhi su un tema discusso, ma necessario”.
Il nuovo (e ultimo) sguardo nella notte di Roma
Questo è Adagio: l’ultimo atto di un racconto iniziato con Romanzo e proseguito con Suburra. Vietato dire che è l’ultima parte di una trilogia, ma è lecito ammettere che si tratta della pennellata finale di un genere. La criminalità organizzata, oggi, dopo la violenza degli anni passati, ha un altro tipo di sviluppo: si spara meno, si intimidisce di più.

“Questi fanno i sòrdi co’ na firma su un pezzo de carta”, potremmo dire citando il Dandi. Sollima in Adagio prende tre volti – più o meno noti non importa – della banda della Magliana e li mette nei tempi moderni. Dove tutto cambia tranne l’esigenza di riaffermarsi: loro rappresentano il passato in una Roma ferita e frenetica che, ormai, è il futuro. Il film affronta – fra azione e profondità – la loro ricerca di un posto dove stare. Proprio a livello di equilibri sociali.
Occasioni perse, certezze da ritrovare, ma soprattutto conti da chiudere. C’è chi considera quest’ultimo il lavoro più intimista del regista, sicuramente è il più ermetico. L’azione c’è, ma è soltanto un tramite per acuire le velleità dei protagonisti: lo sguardo oltre la violenza. Può essere che quel che c’è dietro non sia poi così rassicurante, forse il vero motivo per cui alcuni preferiscono il rischio e la frenesia delle pallottole alla serenità e le paure di una vita che sfiorisce. In cui, alla fine, vincono solo i rimpianti ma non sempre c’è spazio – né tempo – per la redenzione.